La fantasia tolkieniana e i paesaggi d'Irlanda

Articolo di Giovanni Agnoloni

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    La fantasia tolkieniana e i paesaggi d'Irlanda

    (articolo pubblicato su “Minas Tirith”, rivista ufficiale della Società Tolkieniana Italiana – n°.14, anno 2005 e in seguito ripubblicato su La Poesia e lo Spirito)

    Fin dal mio primo approccio a Tolkien ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad un autore che, oltre ad offrire un raro esempio di archetipo letterario (Tolkien è il fantasy), dava la possibilità di iniziare una serie potenzialmente interminabile di raffronti con altri scrittori, anche appartenenti ad epoche e generi molto diversi dal suo. Il proseguimento e l’approfondimento della conoscenza delle tematiche sviluppate nelle sue opere hanno confermato queste sensazioni iniziali: le creazioni letterarie del Professore di Oxford, in effetti, offrono dei modelli assoluti, in termini sia di stati percettivo-emotivi, sia di valori etico-concettuali, tali da rendere possibili accostamenti anche con opere che non hanno un diretto rapporto di derivazione o di somiglianza formale con i suoi libri. In altre parole, l’autore de “Il signore degli anelli” riesce si propone, senza peraltro “volerlo”, come termine di confronto implicito di tutta una serie di artisti, appartenenti sia alla tradizione classica sia alla contemporaneità, i quali hanno saputo sviluppare una rete di atmosfere e di ritratti psicologici perfettamente incastonati in esse, ovvero di situazioni umano-ambientali, che riescono ad esprimere, con la stessa vivezza delle sue opere, l’energia della natura e del mondo. Queste sono le tematiche che ho già trattato nel mio libro “Letteratura del fantastico – I giardini di Lorien” (ed. Spazio Tre, 2004) , che, più che un libro sul fantasy, come giustamente è stato osservato , è un libro sulla fantasia, come tema ricorrente nell’eterno ciclo della storia letteraria e circolare all’interno delle sue più diverse forme.
    Energia e fantasia, dunque: due parole che contengono numerosi punti di contatto, fin quasi ad identificarsi. La mia teoria è, infatti, che, come l’energia naturale (in tutte le forme in cui si può manifestare: dal sole al vento, dall’acqua che scorre al movimento in genere) rende possibile la vita, così la fantasia – non scissa dalla realtà, ma ad essa continuamente ritornante –, dà colore e sapore all’esistenza, che altrimenti rischierebbe di appiattirsi su un grigio materialismo senza orizzonti. In altri termini, mutuati dal saggio tolkieniano Albero e Foglia, l’Evasione non è mai fine a se stessa, ma sempre premessa implicita di un Ristoro che è recupero del pieno contatto con la realtà dei profondi misteri naturali, disarmanti nella loro semplicità ed irraggiungibili nella loro perfezione. L’altra dimensione, l’altrove che è la meta dell’Evasione procura il Ristoro dell’anima (e la gioia della Consolazione che ne deriva) nel momento in cui questa, divenuta improvvisamente consapevole della sua profonda affinità – energetica, appunto – con il qui e l’ora della vita reale, può farvi ritorno, osservandola però con occhi nuovi. Come diceva Tolkien,

    Dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi forse, improvvisamente, metterci ad osservare, come gli antichi pastori, pecore, cani e lupi.
    (J.R.R. Tolkien, “Albero e foglia”, ed. Rusconi)

    L’essenza della fantasia attiene dunque fortemente all’essenza della realtà, che è l’energia vitale. Da qui, un discorso suscettibile di sviluppi ben maggiori. Uno su tutti: il tema del divino che c’è – nella misura in cui c’è – nelle opere di Tolkien, come anche lui riconosce nel suo epistolario, quando (lettera n° 165 del 30 giugno 1955, indirizzata alla Houghton Mifflin Co.) afferma che la Terra di Mezzo è “un mondo monoteista di religione naturale”. L’energia naturale si manifesta perciò come tramite nascosto verso un divino che non viene mai espressamente nominato – almeno ne “Lo Hobbit” e ne “Il signore degli anelli” –, ma che senza dubbio è una presenza implicita, un rimando “in automatico” alla sorgente di quell’energia che si sente pulsare nei luoghi della fantasia – e, aggiungo io, di cui avverte l’eco anche in quelli della realtà –.
    Ancora una volta, è la letteratura comparata che può giungere come elemento chiarificatore, almeno nell’ottica in cui personalmente la intendo. Confrontare anche passi di autori che non si sono mai conosciuti tra loro, o che comunque non si sono reciprocamente influenzati, ha senso, nella misura cui le luci dell’uno riescono a mettere in evidenza le ombre dell’altro, e viceversa. È come una cometa che, passando dietro al lato oscuro della luna, ne illumini per un attimo la superficie sconosciuta. Quello che rende possibile riscontrare le affinità e le consonanze tra i due corpi è, appunto, la pur remota parentela che li unisce, che nell’esempio “astronomico” è la comune materia cosmica, e in quello degli scrittori è il comune radicamento – quando c’è – nell’energia naturale (intesa come indiretto, e comunque non obbligato, rimando ad un orizzonte di spiritualità).
    In termini più concreti, credo che oggi si presenti l’opportunità di approfondire un percorso comparativo tra le situazioni umano-ambientali della letteratura tolkieniana e quelle della letteratura irlandese, in particolare di quella contemporanea. Il perché è presto detto: la lettura di tanti passi di questo interessante universo creativo richiama fortemente le atmosfere dei mondi creati da Tolkien. E non mi riferisco soltanto alla remota ascendenza celtica che fin dall’inizio è stata individuata nel “Silmarillion”, né in generale al rapporto tra Tolkien e l’Irlanda (si veda la già citata Lettera n° 165, dove l’Autore ricorda con piacere i viaggi fatti nell’Isola di Smeraldo), anche perché tutto quello che caratterizza la tradizione celtica irlandese è indubitabilmente affetto da una certa qual pesantezza che sa di antico e di viscerale, e che contrasta con la leggiadria delle ambientazioni de “Lo Hobbit” e “Il signore degli anelli”.
    Di questa sorta di ipoteca di sangue e magia che grava sul materiale leggendario nordico in genere, e specificamente irlandese, permane ancora una lontana eco, benché trasfigurata, nel primo e pur grande capitolo della letteratura irlandese contemporanea, quello che ha in James Joyce il proprio capofila. Joyce è interprete di un universo celtico che ha perso i propri dèi tradizionali ed è stato oppresso dal cristianesimo che vi si è storicamente sostituito, rivelandosi, nella sua concreta applicazione locale, uno strumento di annichilimento delle coscienze. Di questo tipo di atmosfera oscurantista sono espressione soprattutto i racconti di Gente di Dublino, autentici capolavori nella misura in cui riescono, come poche altre opere, ad esprimere il ristagno mentale di un’epoca e di un ambiente. Joyce, tuttavia, è anche il precursore della letteratura irlandese degli anni Ottanta e Novanta, quella che maggiori punti di contatto presenta con il mondo parallelo dell’immaginazione tolkieniana, perché ha saputo isolare momenti di forte magnetismo naturale che non esiterei a definire una rivisitazione moderna degli antichi incantesimi druidici, ovvero una religione naturale che si rifiuta di chiamarsi tale, perché rivendica la propria libertà intellettuale, ma indirettamente rimanda allo spirito, perché è fortemente impregnata di energia. Joyce precorre tutto questo nella misura in cui, con la tecnica del flusso di coscienza, riesce ad abbattere la frontiera invisibile tra osservatore ed ambiente, tra il soggetto ed il mondo in cui esso si muove, aprendo la strada ad un’osmosi pressoché ininterrotta di pensieri che vengono dal dentro e di sensazioni che si originano nel fuori. L’Ulisse, opera, peraltro, di lettura spesso difficile, è l’emblema di questo stile profondamente innovativo, che gli autori a noi più vicini nel tempo hanno poi saputo moderare nei suoi eccessi e rendere più funzionale ad esprimere una totale immedesimazione del lettore nella dimensione del racconto, ovvero un effetto di credenza secondaria – per usare di nuovo le parole di Tolkien in Albero e foglia – benché in questa dimensione, e non in un altrove immaginario. Mi riferisco a tutta una generazione di autori, quali Joseph O’Connor (che pur ha criticato Tolkien), Roddy Doyle, Colm Toíbín, William Trevor ed altri ancora, che negli ultimi quindici-venti anni si sono imposti sullo scenario letterario internazionale per un nuovo approccio, brillante benché disincantato, ad aspetti anche drammatici della moderna realtà irlandese (e non solo – di questi aspetti mi sono occupato, oltre che nel citato saggio “Letteratura del fantastico”, in un mio nuovo lavoro, attualmente in attesa di pubblicazione, dal titolo “Nuova letteratura fantasy”, dove un capitolo è specificamente dedicato ad un percorso comparativo fra Tolkien e Joseph O’Connor). Ebbene, credo che vi sia un filo di continuità pressoché ininterrotta – che è appunto il filo dell’energia – che collega segretamente l’incanto celtico dei luoghi d’Irlanda (quasi il “portato geografico” dell’ancestrale tradizione gaelica), i momenti più luminosi che si aprono nel fitto del grigiore d’inizio secolo (ritratto da James Joyce) e il “realistico entusiasmo” degli autori di oggi. E questo filo di continuità presenta delle forti analogie e consonanze con l’approccio al mondo caratteristico della letteratura tolkieniana, perché produce un effetto di Ristoro (e fors’anche un accenno di Consolazione) paragonabile a quello che emerge dalla lettura delle maggiori opere di Tolkien.
    Circa l’incanto dei paesaggi irlandesi, per chi non ha visitato questo magico mondo ad Ovest della Gran Bretagna, con i suoi paesaggi d’incontaminata serenità, i suoi silenzi e le sue musiche nascoste nell’aria, le migliori descrizioni le possono offrire proprio gli scrittori più sensibili. Ho parlato innanzitutto di Joyce, che già in Gente di Dublino offre, in ripetute occasioni, le cosiddette epifanie, ovvero momenti d’improvvisa illuminazione, di contatto immediato con la realtà, dove le cose non sembrano più opporre un diaframma all’intuitiva comprensione dei misteri del mondo, che sembrano ridursi ad una formula semplicissima. In Mondi letterari a confronto cito un passo – che mi sembra profondamente “tolkieniano ante litteram” –, tratto dal racconto Un incontro, dove si legge:

    Non c’era nessuno tranne noi nel campo. Dopo un po’ che eravamo sdraiati sull’argine senza parlare vidi avvicinarsi un uomo dal lato opposto del campo. Lo osservai pigramente mentre masticavo uno di quegli steli verdi con i quali le ragazze predicono il futuro. Veniva lungo l’argine lentamente. Camminava con una mano sul fianco e nell’altra teneva un bastone con il quale batteva leggermente l’erba. Era poveramente vestito con un abito nero verdastro e aveva uno di quei cappelli con la calotta alta che chiamavano vasi da notte. Sembrava abbastanza vecchio, perché i baffi erano grigio cenere. Quando passò ai nostri piedi alzò rapidamente lo sguardo e poi continuò per la sua strada. Lo seguimmo con gli occhi e vedemmo che dopo aver continuato per una cinquantina di metri circa girava e cominciava a ritornare sui suoi passi. Camminava verso di noi molto lentamente, sempre battendo il terreno con il bastone, così lentamente che pensai stesse cercando qualcosa nell’erba.
    (James Joyce, “Un incontro”, da “Gente di Dublino”, ed. Biblioteca Economica Newton, pag. 33)

    È un passo che sa intimamente di fantasy, innanzitutto per la presenza avvolgente, e direi quasi dilagante, della natura, con quel “campo” ripetuto, quegli “steli verdi” e quell’“erba” che sembrano entrare dappertutto, quella figura di vecchio vestito poveramente, che si avvicina come una retta tranquilla nel paesaggio per poi proseguire il suo cammino e infine tornare indietro, quasi avesse avuto un’intuizione improvvisa in quel luogo; e, alla base, la calma assoluta della campagna, con i suoni ovattati dal soffice manto di natura, diffuso ovunque. Potrebbe tranquillamente essere una fotografia della Contea, e quel signore anziano una sorta di Gandalf del nostro mondo. Si pensi alle parole con cui, nel Signore degli anelli, viene descritto l’arrivo dello stregone a Hobbiville, che ovviamente si inseriscono in una scena dal sapore diverso, ma con una segreta musicalità che è consonante quella del passo di Joyce appena letto.

    (…) Alla fine della seconda settimana di settembre, un carro provenente dal Ponte sul Brandivino traversò Lungacque in pieno giorno. Era guidato da un vecchio con un aguzzo cappello blu, un largo mantello grigio ed una sciarpa color argento. Aveva una folta barba e sopracciglia cespugliose che spuntavano oltre le falde del cappello. Un gruppo di bambini hobbit seguì il carro, correndo attraverso Hobbiville e poi su per la collina (…)
    (J.R.R. Tolkien, “Il signore degli anelli”, pag. 51, ed. Rusconi)

    Anche in questa scena c’è un senso scenografico dello spazio, che però non sa di “costruito”, perché è la diretta conseguenza del respiro della natura. Le figure che si muovono all’interno di questo scenario seguono una linea che non si fatica ad immaginare trasversale rispetto ad un “palcoscenico” rettangolare, così come nel racconto di Joyce si poteva visualizzare una linea orizzontale all’incirca a metà della scena, occupata per metà dal prato e per metà dal cielo. In altre parole, in entrambe le descrizioni, vediamo come l’elemento umano arrivi a vivacizzare, rendendola dinamica, una natura che, nei suoi ritmi di fondo, è sempre uguale a se stessa, ma proprio per questo riesce a infondere calma nell’ambiente e nello spirito delle creature che la popolano. Più nello specifico, il nesso di “parentela” tra i due quadri paesaggistici (ed umani) dipende anche dalla profonda risonanza dei panorami dell’Isola di Smeraldo, che si caratterizzano per il dolce compenetrarsi delle curve del paesaggio con i seni del cielo. Il verde e l’azzurro, qui, sono due dimensioni in costante contatto, che quasi flirtano attraverso una serie di movimenti sinuosi. E questo è lo stesso concetto di incanto naturale che traspare dai luoghi della Contea, per come questa è descritta sia ne “Lo Hobbit” sia ne “Il signore degli anelli”. Non, beninteso, che Tolkien si sia espressamente ispirato ai paesaggi irlandesi, piuttosto che a quelli inglesi o di qualsiasi altra parte del mondo – in altri luoghi del suo epistolario, ricorda peraltro anche la grande suggestione lasciata in lui, ancora bambino, dai grandi “vuoti” della natura sudafricana (v. lettera n° 78, del 12 agosto 1944, al figlio Christopher) –, ma è certo che, per un’associazione spontanea e forse in gran parte indipendente dalla stessa volontà dello scrittore, c’è un’intima musicalità consonante nei due passi, come se i due autori, pur così diversi, avessero entrambi descritto la natura con uno spirito profondamente intonato alle sue calme melodie.
    Questo è senza dubbio un aspetto dell’irlandesità dei paesaggi e delle situazioni della letteratura tolkieniana, che in questa sede mi piace sottolineare. Tuttavia, ve ne sono anche altri, legati alla componente più meditativa e trascendente dei luoghi e dei personaggi della Terra di Mezzo, che emergono da un confronto tra alcuni passi di Tolkien ed altri di scrittori irlandesi degli ultimi vent’anni. Ho accennato a come mi sia occupato, in altra sede, di Joseph O’Connor, scrittore dublinese che non si distingue certo per il particolare apprezzamento che nutre per l’opera del Professore di Oxford, e che però, in più luoghi dei suoi romanzi, riesce ad esprimere un magnetismo ambientale che merita di essere quanto meno accostato a quello di alcuni luoghi tolkieniani.
    Leggiamo questo passo, tratto dal romanzo La fine della strada:

    Il cielo del mattino era atono, di un grigio acquoso. Una pallida falce di luna indugiava sopra le montagne, mezzo oscurata dalle dita filamentose di una nube. La neve fresca si stendeva lungo le rive e dentro i fossi, copriva le campagne di una crosta vitrea: il fronte freddo che si avvicinava lentamente da nord aveva ghiacciato le foglie morte trasformandole in ostie irrigidite.
    (Joseph O’Connor, “La fine della strada”, ed. Guanda, pag.330)

    Mi viene, subito dopo, da pensare a questa descrizione del tratto delle Montagne Nebbiose immediatamente precedente Il monte Caradhras:

    (…) La mattina del terzo giorno il Caradhras si rizzò innanzi a loro: una vetta imponente incappucciata di neve simile ad argento, ma dai fianchi spogli e scoscesi, di un rosso smorto, come macchiati di sangue.
    Vi era qualcosa di nero nel cielo, ed il sole languiva. Il vento veniva ora da nord-est. Gandalf fiutò l’aria e diede un’occhiata all’orizzonte dietro di sé.
    (J.R.R. Tolkien, “Il signore degli anelli”, ed. cit., pag. 360)

    Rileggendo adesso le righe del primo passo di O’Connor, senza pensare che ha per protagonista un poliziotto che viaggia nel Nord-Ovest dell’Irlanda per un’indagine, mi viene quasi da credere che sia quello il brano di Tolkien. Vi troviamo infatti lo stesso senso di una natura spettatrice silenziosa e in fondo indifferente alle umane vicissitudini, eppure capace di influire sul corso degli eventi, attraverso gli stravolgimenti del clima. Inoltre, vi scorgiamo anche quel sapiente uso dei toni indefiniti, delle venature indeterminate, come in quel “grigio acquoso”, in quella “pallida falce di luna”, oppure nella sensazione di vita imprigionata, ma ripresa con grazia, che emana dalle espressioni “crosta vitrea” e “ostie irrigidite”. In Tolkien, poi, troviamo la “neve simile ad argento”, il “rosso smorto” – reso però inquietante dal paragone con il colore del sangue – e poi il “sole” che “languiva”. La natura, in tutti e due gli scrittori, pur appartenenti ad epoche e generi diversi, e nonostante l’avversione di O’Connor a Tolkien, pare seguire lo stesso “itinerario espressivo”, che mette noi lettori nella condizione di assorbirne gradualmente le onde emotive, come se quei paesaggi entrassero lentamente a far parte di noi, permeando la nostra sfera percettiva e razionale. È, peraltro, una caratteristica dei luoghi d’Irlanda, che, per una curiosa coincidenza, ho avuto modo di conoscere subito dopo la lettura de “Il signore degli anelli”, e mentre il mio libro “Letteratura del fantastico” era il fase di realizzazione. Quei paesaggi paiono in diretta linea di continuità con i luoghi della Terra di Mezzo, non tanto perché sappiano di un oltre immaginifico, quanto perché in essi il contatto con la natura – e con le persone, tanto cordiali da ricordare i vivaci Hobbit – è così immediato e permeante da non lasciare spazio a commenti. La natura esprime tutto quello che c’è da dire, così come succede nella lettura dei romanzi di Tolkien. In altre parole, l’Irlanda è un pezzo del mondo reale in cui è possibile vivere dal vero l’esperienza di una “Evasione” in una sorta di Terra di Mezzo della realtà, ovvero in una dimensione di quieta energia, che rilassa e vivifica lo spirito. Eppure, siamo sempre nella realtà, e non certo in una dimensione parallela. In altre parole, esperienze come un viaggio in Irlanda, o anche la lettura delle più felici opere della letteratura irlandese contemporanea, rendono possibile verificare come Evasione, Ristoro e Consolazione possano innescarsi anche al di fuori dei confini del fantasy in senso stretto, ovvero in un territorio di esperienza che passa attraverso la fruizione dell’energia naturale: è quello che mi piace chiamare neo-fantasy, ovvero l’insieme di tutti gli scrittori di letteratura realistica che sanno infondere nelle loro opere il fascino magnetico della natura, realizzando così un effetto di Credenza Secondaria.
    Gli Irlandesi sono maestri in questo. Abbiamo citato O’Connor, ma c’è anche un altro scrittore della generazione contemporanea che merita di essere ricordato, ed è Roddy Doyle. Si legga questo passo, tratto da La donna che sbatteva nelle porte, con la descrizione di una marina sul golfo di Dublino.

    C’erano degli strani alberi che mi facevano pensare di non essere in Irlanda. Anche se pioveva. Perfino le pratoline erano diverse. Erano più grandi e più piene, fiori in tutto e per tutto. C’era un odore di cose che crescevano e morivano. Arrivai alla fine della stradina. C’era la bassa marea. Era una meraviglia; miglia e miglia di sabbia bagnata e luccicante, e una nebbiolina sottile che bastava a far sembrare più interessanti le cose. L’isola di Lambay sembrava sospesa in aria. Si vedeva un paese in fondo sulla sinistra; forse era Skerries, che nella nebbia sembrava una città americana. C’erano delle dune che sembravano fatte per gli arabi. E la ringhiera sembrava d’argento, tutta illuminata. Non c’era quasi nessuno in giro; poche persone sedute nelle macchine parcheggiate, che guardavano nella stessa mia direzione. E magari pensavano quello che pensavo io, e provavano la stessa sensazione.
    (Roddy Doyle, “La donna che sbatteva nelle porte”, ed. Guanda, pagg.150-153)

    C’è, in questo passo, il senso di una comunione intima di sensazioni, di condivisione dell’unico grande torrente di energia della natura, tra il personaggio che osserva e l’ambiente circostante, oltre che con le persone che osservano quello scenario nello stesso momento. Inoltre, l’incanto magnetico del paesaggio produce uno strano effetto di “straniamento spaziale”, per cui viene espresso il dubbio se si tratti veramente dell’Irlanda. Questa è l’Evasione nella Terra di Mezzo della realtà, che viene innescata, ancora una volta, da espressioni e toni indeterminati, come quell’“odore di cose che crescevano e morivano”, o quella “nebbiolina sottile che bastava a far sembrare più interessanti le cose”, o ancora quell’isola, apparentemente “sospesa in aria”. Tutto, però, sembra più vero, direi quasi “intensificato” – ovvero manifestato nella sua vera essenza, come ci trovassimo al di là del “velo di Maya” –, similmente a quanto avviene nel bosco di Lothlórien, dove Frodo prova queste sensazioni:

    (…) Gli sembrava di essere volato giù da un’alta finestra aperta su un mondo svanito. La luce in cui era immerso non aveva nome nella sua lingua. Tutto ciò che vedeva era armonioso, ma i contorni parevano al tempo stesso precisi, come se concepiti e disegnati al momento stesso in cui venivano scoperti gli occhi, ed antichi, come se fossero esistiti da sempre. Non vedeva colori ignoti al suo sguardo, ma qui l’oro ed il bianco, il blu ed il verde erano freschi ed acuti, e gli pareva di percepirli per la prima volta e di creare per essi nomi nuovi e meravigliosi.
    (J.R.R. Tolkien, “Il signore degli anelli”, ed. cit., pag. 435)

    Questa sensazione di intensa riscoperta della realtà è l’approdo finale, il telos dell’intera esperienza subcreativa. Vi è una percezione dell’eternità e al tempo stesso della perenne mutevolezza dei luoghi, che vengono per la prima volta visti come in effetti sono, quasi che si fossero appena trasformati nel loro aspetto attuale, ma contemporaneamente recano impresso il segno di un presente sempre uguale a se stesso. Non vi è alcuna patina, qui, ma solo l’immediato godimento della bellissima – eppur profonda – superficie del mondo. Ovviamente, in questo scenario la percezione dell’essenza (e della bellezza) perfetta della natura avviene in modo netto, perché ci troviamo di fronte ad una sorta di Idea, “platonicamente” intesa, del verde e dell’energia naturale. Tuttavia, anche nel passo di Doyle si è potuto assistere al rinvenimento di un anfratto di energia intima della natura nel paesaggio d’Irlanda. Si tratta, com’è evidente, di due situazioni diverse, e che non presentano nessun rapporto diretto l’una con l’altra – anche perché i luoghi della Terra di Mezzo non “rappresentano” allegoricamente quelli del mondo reale, pena il venir meno dell’effetto subcreativo –; eppure, sono consonanti e accomunate da un segreto ruscello sotterraneo di energia, che scorre sia nelle vene dei mondi tolkieniani che in quelle del mondo reale.
    Il senso di “comunione condivisa” che traspariva dal passo di Roddy Doyle riemerge anche in un brano tratto dal romanzo Il faro di Blackwater, di Colm Toíbín, dove vediamo il rapporto di intima complicità fra uomini ed ambiente trasporsi quasi sul piano delle relazioni interumane: in altre parole, l’intimità a cui la natura invita si trasforma direttamente in pensieri sugli altri o in pensieri insieme agli altri, come in un quadro raffigurante un paesaggio, dove piccole figure inizino a muoversi silenziose:

    I tre uomini e le due donne tornarono sui loro passi, verso il piccolo corso d’acqua che ogni anno cambiava direzione sotto la sabbia. Non c’era nessun altro sulla spiaggia; era troppo tardi per le passeggiate e anche per le nuotate, e le loro erano le uniche macchine nel parcheggio. Quando Declan andò in macchina con i suoi amici e lasciò lei e sua madre da sole, Helen rimase sorpresa. Forse avevano parlato di lei, pensò, con Declan che cercava ancora di ravvicinarle. Ora erano insieme, pensò Helen, e lei si sentiva a disagio. Mise in moto e aspettò che Larry facesse lo stesso. Poi lo fece passare avanti e lo seguì piano, le luci accese. Si diressero verso Cush mentre calava la notte.
    (Colm Tóibín, “Il faro di Blackwater”, Fazi Editore, pag.160)

    Tutto questo fa parte del senso di tranquillo approccio al rapporto con gli altri che caratterizza gli Irlandesi, anche nelle situazioni che presentano aspetti di tensione. È qualcosa che sembra, come poco sopra si adombrava, naturalmente figlio dei panorami dell’Isola di Smeraldo. Del resto, la Credenza lSecondaria non è solo il risultato di una sapiente raffigurazione dei paesaggi, ma anche della creazione di situazioni umano-ambientali in cui gioca sicuramente un ruolo importante il coinvolgimento del lettore nel punto di vista dei personaggi. Questo può verificarsi opportunamente solo laddove i profili psicologici ed interumani s’incastonano alla perfezione nel quadro del paesaggio, come spesso succede anche in Tolkien. Penso al momento della partenza della Compagnia dell’Anello da Gran Burrone, agli sguardi ed ai gesti malinconici, benché animati da una segreta speranza.

    Molti di coloro che dimoravano nella casa di Elrond li guardavano partire, in piedi nelle tenebre, salutandoli dolcemente. Non si udivano risa, né canzoni, né musica. Infine si allontanarono, scomparendo silenziosamente nel crepuscolo.
    Passarono il ponte e percorsero lentamente il lungo sentiero ripido e serpeggiante che conduceva fuori dalla profonda vallata di Gran Burrone; giunsero così all’alta brughiera ove il vento fischiava tra l’erica. Dopo aver lanciato uno sguardo d’addio all’Ultima Casa Accogliente che scintillava ai loro piedi, s’incamminarono lontano nella notte.
    (J.R.R. Tolkien, “Il signore degli anelli”, pag. 354, ed. cit.)

    Qui la fusione tra le figure che si muovono silenziose nel paesaggio e le pieghe armoniose della natura che si addormenta è perfetta. I personaggi sono ancora legati da forti vincoli emotivi al luogo che stanno abbandonando, e lo dimostrano gli sguardi che indugiano, le mani che si possono immaginare impegnate in gesti di saluto, ma soprattutto il silenzio, vettore privilegiato dei pensieri e dei sentimenti. Tutto rientra in un tutto che è il seno della grande madre, la natura, che tutto conosce perché tutto ha sentito fin dall’inizio, in quanto implicita è in essa la matrice divina che l’ha creata, ed a cui altrettanto liberamente rinvia il canale di energia che la sostanzia. I sentimenti dei personaggi sono l’ultimo anello, ma forse anche il più prezioso, di questa catena di stadi energetici, che parte dai luoghi ed ai luoghi ritorna, passando attraverso le esperienze emotive che ne solcano i canali.
    Vorrei concludere questa rassegna con un passo di William Trevor, tratto dal racconto Il dono della vergine, in cui il filo dell’emotività come veicolo di energia non si dipana solo in senso spaziale, ma anche temporale:

    L’abbazia era da qualche parte a est, sui pascoli che aveva davanti una volta aveva camminato. E più vicino c’era la collina dove così spesso aveva badato alle pecore di suo padre. C’era il ruscello lungo il quale crescevano gli ontani, i loro rami ora privi di foglie. Non c’erano animali sui pendii della collina, né oche nel frutteto, né maiali che grufolavano sotto il faggio. Ma la piccola casa di pietra era quasi immutata.
    (William Trevor, da “Il dono della Vergine”, in “Gli scapoli delle colline”, ed. Guanda, pag.121)

    Il protagonista, un eremita che ha vissuto la maggior parte della sua vita in meditazione lontano da casa, ritorna infine ai luoghi che l’hanno visto bambino, dove ritroverà i genitori, ancora vivi. È un momento d’intensa commozione, in cui non si possono non intravedere i segni di un miracolo naturale, poiché il paesaggio sembra cospirare, insieme alla memoria del personaggio, al fine di riportarlo ad un passato in fondo appena trascorso, benché assai lontano. Tutto è rimasto praticamente inalterato, eppure tutto appare come nuovo, proprio come nel bosco di Lothlórien, perché la vita si rinnova nella riscoperta del momento e del luogo presente, così intensi. Il qui e l’ora, dunque, divengono “tramiti immediati” di un lì e di un allora che si relativizzano, nella consapevolezza che tutto ciò che è destinato a passare ha una sua sostanza ed una sua dignità che vanno al di là dei limiti del tempo. L’esperienza subcreativa innescata dalla natura e dall’emotività dell’uomo, dunque, finisce per espandersi in una dimensione super-temporale, producendo un effetto senza dubbio paragonabile a quello dello sguardo ampio – e pressoché onnicomprensivo – del narratore Tom Bombadil, quando, all’interno della sua casa, racconta storie ai piccoli Hobbit.

    Quando finalmente riuscirono a concentrarsi di nuovo su ciò che diceva il vecchio Tom, scoprirono che aveva percorso molta strada, giungendo in strane regioni al di là della loro memoria e del loro pensiero cosciente, in tempi quando il mondo era più vasto e le acque scorrevano direttamente alla Spiaggia occidentale. E Tom continuava cantando a risalire le epoche, fino all’antica luce stellare, quando solo i padri degli Elfi vegliavano. Poi all’improvviso smise di parlare, e videro che la testa gli cominciava a ciondolare, come se stesse per addormentarsi. Gli Hobbit sedevano immobili e silenziosi, estasiati; e parve che il sortilegio delle sue parole avesse placato il vento, asciugato le nuvole e allontanato la luce del giorno per far posto all’oscurità giunta dall’Ovest e dall’Est: il cielo era inondato dal bagliore di bianche stelle.
    (J.R.R. Tolkien, “Il signore degli anelli”, ed. cit., pag.179)

    Il tempo, contenitore di emozioni che viaggiano a velocità impossibile da misurare, è una dimensione che la mente non può dominare, ma che l’energia percorre in lungo e in largo, arrivando a ricollegare, in una circolarità senza fine, l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine di tutto. Questo è ciò cui le parole di Tom Bombadil alludono, poiché in esse molto è sottinteso di tutte le passioni e di tutti gli amori che hanno divorato i miliardi di secondi trascorsi dai primordi, ai quali il suo racconto rinvia, fino al presente, al cospetto del perenne – e pur mutevole – scenario della natura. È bello e ricco di significato che l’immagine conclusiva di questo passo – che vorrei anche lasciare come immagine finale di questa mia riflessione – sia un cielo notturno “inondato dal bagliore di bianche stelle”, perché rimanda al profondo seno del cosmo, scatola invisibile in cui l’energia della natura si ricicla e si trasforma perennemente, mai disperdendosi e sempre ritornando.
    Se c’è un’immagine che ricordo con vivezza dell’Irlanda è proprio la profondità delle sue più limpide notti stellate, che costituiscono – specialmente nelle zone meno urbanizzate – uno spettacolo veramente a portata di sguardo e quasi di mano, per l’apparente prossimità degli astri. I poeti e gli scrittori d’Irlanda hanno sempre avuto questo silenzioso interlocutore di fronte a sé, e un simile spettacolo li ha non solo ispirati, ma in qualche modo restituiti alla sfera di percezioni profonde – eppure semplici e immediate – che nascono dalla natura ed alla natura spontaneamente riconducono, passando per il sensibile diaframma delle emozioni, viaggiatrici del tempo e dello spazio.


    Crediti di © La poesia e lo spirito

    Edited by ;Fairytale» - 22/4/2023, 15:53
     
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