Tolkien e il suo approccio al mito

Articolo di Claudia Maschio

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    L’Inghilterra in epoca romana si chiamava Britannia ed era abitata da genti celtiche. Intorno al V secolo fu teatro di una serie di invasioni da parte di popolazioni di lingua germanica provenienti dalla penisola danese: Juti, Angli e Sassoni. Furono queste popolazioni a importare la lingua che, con qualche evoluzione, oggi chiamiamo anglosassone o antico inglese, lingua di cui Tolkien era specialista e che insegnò a Oxford dal 1925 al ’45.

    La letteratura anglosassone, pur essendo piuttosto ricca, contempla una sola grande opera di argomento mitologico, il Beowulf

    Tolkien conosceva il Beowulf, poema intorno al quale scrisse alcuni interessanti saggi e da cui trasse ispirazione per il personaggio di Beorn.
    Nonostante il Beowulf sia stato redatto in Inghilterra nell’VIII secolo, è più esattamente inscrivibile nell’ambito dei cicli eroici scandinavi, e persino la sua ambientazione è danese.
    Tolkien si doleva che l’Inghilterra non avesse una mitologia nazionale anglosassone (era troppo un buon filologo per non sapere che le vicende di Artù e dei cavalieri della tavola rotonda erano di origine celtica). E a più riprese affermò che le sue opere intendevano fornire al suo Paese, seppure in forma letteraria, quella base mitologica genuina che le mancava.

    La Terra di Mezzo
    Già il nome del mondo dove Tolkien ha ambientato i suoi romanzi è indicativo di una scelta ben precisa. “Terra di Mezzo” è il termine con cui, nelle mitologie germaniche, si indica il mondo della manifestazione umana, cioè il nostro (anglosassone Middangeard, norreno Miðgarðr, antico alto tedesco Mittilagart).

    Nella cosmologia germanica, tale mondo era collocato al centro dell’universo: in alto c’era il mondo degli dèi, sottoterra quello dei morti, tutto intorno terre inospitali di ghiaccio e di fuoco, popolate da giganti e creature mostruose.
    Tolkien ha ripreso quest’antica terminologia cosmologica popolando la Terra di Mezzo di razze e creature che derivano in buona parte dalla mitologia germanica: elfi, nani, troll e via dicendo. Ma, nel farlo, si è preso svariate libertà.

    Elfi
    Nel reinventare i suoi elfi, Tolkien si è rivolto allo strato più antico della mitologia nordica. Ancora negli anni ‘50, gli elfi erano presentati, nei libri per ragazzi o nelle fiabe popolari, come delicate creaturine alate, in forma di leziosi folletti. Tolkien si è sbarazzato di quest’immagine posteriore ed è tornato alle fonti più antiche: le due Edda e le saghe islandesi, dove gli elfi appaiono quali esseri di statura umana, divinità minori a cui venivano tributati sacrifici e offerte.
    Tuttavia, mentre nei testi mitologici e nelle ballate scandinave gli elfi sono creature amorali e crudeli, sensuali e lascive, nell’interpretazione di Tolkien diventano esseri nobili, di alta statura etica e morale.

    Nani
    Anche i nani appartengono alla mitologia nordica: sono i signori del sottosuolo, incomparabili artigiani, avidi accumulatori di tesori, guerrieri forti e robusti.
    Tolkien li rievoca con molta verosimiglianza, sebbene ne escluda i tratti più sinistri e oscuri, e attribuisce loro nomi che spesso derivano da tradizioni letterarie. Per esempio, i nomi dei tredici nani che compaiono ne Lo Hobbit sono tratti dall’enumerazione dei capi del popolo dei nani presenti nella Völuspá (la “Profezia della veggente”), un testo sapienziale islandese del IX secolo, col quale si apre l’Edda poetica.

    Ent
    Il popolo degli alberi, che Tolkien chiama “Ent”, è molto interessante per comprendere il grado di rielaborazione raggiunto nel Signore degli Anelli. Ent infatti è una parola anglosassone che in origine significava “gigante”. Di questi giganti si parla nel Beowulf come di un popolo antico e remoto, violento e superbo, che venne distrutto da Dio con un diluvio (tradizione che ricompare anche nell’Edda).
    Tolkien ne fa, con un guizzo geniale, degli alberi antichi e saggi, custodi della terra e della natura.

    Elementi strutturali nell’opera di Tolkien
    Nello Hobbit assistiamo alle avventure di Bilbo Baggins che, dopo un lungo viaggio, arriva alle Montagne Nebbiose, dove il drago Smaug custodisce un immenso tesoro. All’interno delle montagne, Bilbo trova il famoso anello, quello che, come si scoprirà nei tre romanzi successivi, domina chi lo possiede con una sorta di bramosia ossessiva.

    Era stata questa la sorte del precedente possessore dell’anello, il povero Gollum. Costui era stato un hobbit di nome Sméagol. Quando suo cugino Déagol aveva rivenuto l’anello sul fondo di un torrente, Sméagol lo aveva ucciso per impadronirsene. Dopodiché Sméagol si ritirò nelle caverne delle Montagne Nebbiose, dove condusse un’esistenza larvale in unica funzione del suo anello.

    L’anello maledetto
    Il motivo dell’anello maledetto che scatena bramosia in chi lo possiede fa parte di una leggenda germanica riportata dalla Saga dei Völsunghi, e, nella sua versione più popolare, nel Canto dei Nibelunghi . Si tratta della vicenda che Wagner ha reso famosa nel suo quartetto di opere liriche noto come “Tetralogia dell’Anello”, di cui l’Oro del Reno è il primo capitolo. La sua più antica formulazione la troviamo, tuttavia, nella seconda parte dell’Edda di Snorri, dove per la prima volta viene rivelata, a spiegazione di una metafora scaldica, la leggenda dell’anello maledetto.

    L’anello nell’Edda
    Un giorno Loki rubò al nano Andvari tutto il suo oro. Andvari cercò di tenere per sé soltanto un magico anello, che gli avrebbe permesso di accumulare un nuovo tesoro. Ma Loki, accorgendosene, gli portò via anche quello. Così Andvari lanciò una maledizione sull’anello: sarebbe stato la rovina di chiunque lo avesse posseduto.
    In seguito, Fáfnir si impadronì di tutto il tesoro di Andvari, anello compreso. Si rinchiuse in una caverna e, trasformatosi in drago, si pose a giacere sull’oro.
    Seguirono una serie di complotti e uccisioni per il possesso del tesoro, con conseguente e inevitabile rovina e morte per chiunque ne entrava in possesso, fino al crollo della stirpe dei Völsunghi. L’oro e l’anello vennero a quel punto gettati nel Reno e – dice la leggenda – si trovano ancora là.

    Il mito rielaborato da Tolkien nei suoi romanzi
    Anche in Tolkien è un fiume a custodire l’anello maledetto. Ma, contrariamente alla leggenda germanica, l’anello viene ripescato da Sméagol e Déagol. Gollum, che uccide il cugino e si ritira nelle viscere delle Montagne Nebbiose insieme al suo “tesssoro”, è una rielaborazione in piccolo della figura di Fáfnir che si rinchiude in una caverna dove si trasforma in drago.

    Non bisogna lasciarsi trarre in inganno dal fatto che Gollum non si trasformi in drago. Nel racconto di Tolkien, infatti, la maledizione dell’anello opera su di lui una sorta di metamorfosi, distruggendo la sua umanità e trasformandolo in un essere ripugnante.
    Tolkien, scrive che Gollum «strisciò viscido e lento come un baco nel cuore del monte», laddove nel mito nordico Fáfnir assume l’aspetto di un drago. Ma il drago, l’ormr della mitologia nordica, ha di fatto l’aspetto di un enorme serpente.

    L’avidità come forma di schiavitù
    In Tolkien, tuttavia, la figura di Fáfnir produce anche quella del drago Smaug. Gollum e Smaug sono due rami che si protendono da una stessa radice: condividono gli stessi antri sotto le Montagne Nebbiose e all’anello di Gollum corrisponde il tesoro di Smaug. In entrambi l’avidità si trasforma in schiavitù, perché vivono in funzione di ciò che possiedono, con la perenne paura di essere privati delle loro ricchezze.

    La bramosia legata all’oro scatena i peggiori istinti degli uomini
    Nei miti nordici si narra che l’età felice dei primordi si chiuse proprio quando nel mondo entrarono l’avidità e la cupidigia dettate dall’oro e dal desiderio di possesso. Apprendiamo dalla Völuspá che in origine gli dèi e gli uomini non davano alcun valore all’oro: erano ricchi, ma non avevano coscienza di esserlo.

    Un giorno arrivò una misteriosa donna, Gullveig (nome che significa “bramosia dell’oro”) a instillare nelle persone pensieri di cupidigia e avidità. A quel punto, uomini e donne presero a disputarsi le ricchezze, cominciarono i primi dissidi, scoppiarono le prime guerre. Allora si chiuse l’età felice dei primordi, la gioia e la letizia abbandonarono il mondo e iniziò la nostra cruda e triste età, dominata dall’avidità, dalla violenza e dalla sopraffazione.

    Nella mitologia nordica la storia del mondo si configura come un crollo morale universale. È quello che Dumézil chiama, con felice espressione, “il dramma del mondo”. La Völuspá ci apre squarci su un futuro livido, in cui avidità, odio, furti, omicidi sono destinati ad aumentare, i cuori degli uomini a farsi sempre più duri e feroci. Questo finché il mondo stesso, avvolto da un inverno eterno, crollerà nel fuoco e nel sangue di una guerra cosmica. È il Ragnarök, il “crepuscolo degli dèi” che metterà fine al mondo.


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