Le fiabe e Tolkien: lo scrittore nel Paese delle meraviglie

Articolo di Noemi Ronci

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    Come le fiabe sono uscite dalla “polverosa stanza dei bambini” e sono tornate ad essere un genere degno della letteratura grazie all’intervento di Tolkien, Sulle Fiabe
    È noto a pochissimi tra coloro che semplicemente conoscono la saga de Il Signore degli Anelli, ma assai di più a chi ne è estimatore, che JRR Tolkien fu anche un incredibile studioso e saggista. Il creatore della Terra di Mezzo ha infatti a lungo studiato il linguaggio degli uomini per crearne molti propri, ha approfondito la letteratura di ogni tempo e genere per diventare un grande scrittore e, infine, ha studiato la teoria delle fiabe per scriverne una che è rimasta nella storia.

    Tra i suoi studi più interessanti, infatti, – e forse anche tra i meno noti – ce n’è uno dedicato alle fiabe e più in particolare alla demolizione degli stereotipi ad esse connessi. È questo che Tolkien fa nel suo saggio dedicato al tema che egli affronta, nel giro di pochissime pagine, con un rigore scientifico e una fascinazione espressa in queste sue parole:

    Non nego, naturalmente, perché lo sento profondamente, il fascino connesso al desiderio di districare il viluppo storico, fitto e ramificato, dell’Albero dei Racconti, desiderio intimamente connesso con lo studio cui si dedicano i filologi dell’ingarbugliata matassa del Linguaggio, di cui ho qualche infarinatura […] La storia delle fiabe è probabilmente più complessa della storia biologica della specie umana, e altrettanto complessa della storia dell’umano linguaggio.

    Il problema delle fiabe posto da Tolkien: Feeria e le origini dello studio
    Nel 1947, Tolkien pubblica una raccolta di racconti (edita in Italia col titolo di Albero e foglia) preceduta da un saggio: Sulle Fiabe. In esso lo studioso, che non è ancora il grandioso romanziere della Terra di Mezzo, affronta una questione fondamentale per la scrittura della sua opera: la rivendicazione d’importanza di un genere quale quello della narrazione di fantasia.

    Presupposto implicito e fondamentale della trattazione è l’esistenza di quella che Tolkien chiama Feeria. Questa appare come un Mondo Secondario in cui regna quel che viene reputato impossibile, ma che non è esterna alla realtà; ad essa si sovrappone palesandosi solo in poche, fortunate occasioni e solo a coloro che rimangono abbastanza in ascolto da percepirla.

    È una dimensione abitata da fate, folletti ed elfi che si caratterizzano non tanto come creature soprannaturali, quanto come astrazioni – viventi! – di caratteri e sentimenti tutti umani. Sono il prodotto di una millenaria minestra cucinata in un calderone letterario che produce fiabe da secoli e che è prodotto da secoli di narrazioni cui hanno contribuito Shakespeare con La Tempesta o Sogno Di Una Notte Di Mezza Estate, ma anche Pope, Milton, Blake, Omero. Tutti hanno aggiunto elementi, narrando stralci della vita dell’uomo attingendo a ciò che andava oltre la vita dell’uomo, guardando a Feeria e riportando nei confini accettabili delle storie narrate ciò che erano riusciti a vedere.

    La fiaba non è dunque solo una fiaba come spesso oggi crediamo, ma il prodotto culturale di narrazioni complesse e poi banalizzate, relegate alla stanza dei bambini. Così come Feeria non è solo un mondo inventato; è una dimensione in cui accanto a elfi, fate, draghi e folletti, vivono i mari, il sole, la luna, il cielo, sassi, uccelli, alberi e gli stessi uomini mortali.

    Così ci avviciniamo alle premesse dovute al Signore degli Anelli.

    Il metodo scientifico di Tolkien applicato a Feeria
    Tolkien – si sarà intuito – non è solo un grandioso narratore, ma anche un grande studioso e, come tale, nello stesso periodo in cui iniziava a scrivere Il Signore degli Anelli si poneva domande sulla storia che stava componendo. Egli componeva la sua personale Feeria interrogandosi da studioso su cosa fosse prima ancora forse di accorgersi che c’era dentro.

    Così all’inizio del saggio pone subito le questioni principali e dice:

    Feeria è un paese pericoloso […] È un paese del quale sono stato poco più di un esploratore casuale (o forse un intruso), pieno di meraviglia ma sprovvisto di informazioni. […] E, mentre vi si trova [l’uomo che è entrato nel regno di Feeria], è rischioso per lui porre troppe domande, per tema che i cancelli si serrino e le chiavi vadano perdute. Vi sono tuttavia alcune domande alle quali chi vuol parlare di fiabe è chiamato a rispondere o per lo meno a tentare di farlo, nonostante ciò che la gente di Feeria possa pensare di questa sua indelicatezza. Per esempio: che cosa sono le fiabe? quale ne è l’origine? a che servono?

    Queste, dunque, le domande che Tolkien si pone all’inizio della sua analisi come ogni buon scienziato, e da scienziato imposta la sua ricerca.

    Il tema del linguaggio
    Egli paragona, ad esempio, il problema della ricerca delle origini della fiaba a una variante del problema con cui è alle prese l’archeologo o lo studioso di filologia comparata e, inoltrandosi nella difficoltà della ricerca, arriva ad affermare che la storia delle fiabe è probabilmente più complessa della storia biologica della specie umana, e altrettanto complessa della storia dell’umano linguaggio.

    Si stupisce tanto della straordinarietà dei processi compositivo-narrativi dell’uomo, quanto del loro strumento, sua ineguagliabile passione: la lingua.

    E quanto possente, quanto stimolante per la facoltà stessa che l’ha prodotto, è stata l’invenzione dell’aggettivo! Nessuna formula magica o incantesimo di Feeria lo è di più.

    Possiamo stendere un ferale verde sul volto di un uomo e generare un orrore; possiamo far germogliare boschi di argentee foglie e far indossare agli arieti velli d’oro, possiamo mettere fuoco caldo nel gelido ventre del drago. Ma tali «fantasie», come si usa chiamarle, sono la matrice di nuove forme; ha inizio Feeria; l’uomo diviene un subcreatore.

    L’evoluzione della concezione della fiaba
    Secondo la ricostruzione di Tolkien, l’origine delle fiabe, un po’ come l’origine del linguaggio, si perde nel tempo. Dal momento in cui l’uomo è stato, infatti, in grado di comunicare, ha iniziato a narrare e, affinando le sue capacità di raccontare, ha plasmato la fiaba.

    Se non siamo in grado di stabilire il momento esatto in cui il genere è nato, siamo invece certi di una cosa chiara sin dal saggio tolkieniano: la fiaba non nasce come l’addolcito racconto presentatoci da Walt Diseny, con principi, principesse e animali parlanti, ma aveva originariamente una dignità letteraria degna della sua complessità.

    Secondo Tolkien esistono due grandi filoni di fiabe. Il primo è quello che origina dalla mitologia e dall’epica che avrà a che fare col racconto di imprese straordinarie, superamento di limiti inimmaginabili o lotte contro il male. Il secondo, invece, viene dal folklore e dal racconto popolare e genera narrazioni più intime che riguardano conquiste quotidiane e superamento di limiti personali.

    Solo in età vittoriana con la creazione di una classe borghese ricca e benestante che poteva permettersi di idealizzare il mondo dell’infanzia, tenendo i bambini a casa senza necessità di farli lavorare, la favola stessa è semplificata, epurata delle sue caratteristiche più complesse e macabre.

    In aggiunta a questo, il processo di industrializzazione finì per generare un senso di nostalgia per il mondo naturale, spesso scenario delle favole, che viene esso stesso ingentilito. E sotto la spinta di tutto questo la fiaba, che da discendente dei miti e dei racconti aedici o di folklore era entrata inizialmente nella letteratura anche per adulti, diviene una idealizzazione per un mondo ovattato, cristallizzato nell’infanzia. In un colpo solo, bambini e fiabe sono chiusi in una stanza, separati dal resto del mondo degli adulti e da lì in poi guardati a distanza.

    La teoria di Tolkien: la fiaba tra fantasia e verità
    Nel momento in cui cominciamo a considerare la fiaba come qualcosa di più di una semplice storiella per bambini, notiamo che ciò che contraddistingue la fiaba è la fantasia, ma ancor di più, ci dice Tolkien, è la credibilità.

    Il patto narrativo che si instaura tra lettore e autore in qualsiasi genere è valido soprattutto – è evidente – per la fiaba. Leggendone una si può credere a tutto, con un limite: quello posto, appunto, dalla capacità dell’autore di essere credibile. Così qualsiasi lettore, bambino o adulto che sia, ancor prima di aprire un libro di favole sa che dovrà essere disposto a trovare qualsiasi cosa la fantasia abbia suggerito al narratore, ma non è tenuto a credergli se la sua narrazione non è attendibile.

    Tutto il contenuto fantastico dovrà rispondere rigorosamente a delle leggi logiche che governano il mondo inventato e che, una volta stabilite, non possono essere violate. Ma, soprattutto, tutto il narrato deve avere un qualche rapporto più o meno implicito con la verità. La fiaba, cioè, deve avere un significato, concetto che ingloba sia il senso di credibilità che qualsiasi narrazione letteraria deve avere, sia il suo intimo rapporto con la verità. Tanto più la storia dimostra di avere un legame con i valori umani o un messaggio che riguardi qualcosa del Mondo Primario (quello senza fantasia) tantopiù sarà pregiata, tantopiù entrerà meritatamente nel reame della letteratura.

    La teoria di Tolkien in pratica: Il “futuro” Signore degli Anelli
    Per capire meglio, si pensi proprio a Il Signore degli Anelli; possiamo ben comprendere il pregiato lavoro di fantasia che Tolkien ha compiuto, creando un mondo con le proprie leggi senza mai tradirle. Ma tutto ciò ottiene un valore assai più profondo se si pensa che quello che ha spinto l’autore a riscoprire la sua voglia di meraviglia alle soglie della maturità fu la guerra. La guerra, la lotta contro il male e l’orrore in cerca di pace è una delle metafore più forti che domina la storia. Tutto ciò spinse Tolkien a impiegare il suo talento letterario per creare proprio un mondo di pace minacciato dal conflitto e dal male, che spinge anche i più anonimi personaggi ad agire per preservare se stessi e i propri valori.

    Il senso della sua storia è esattamente questo: una delle lezioni delle fiabe (sempre che si possa parlare di lezioni a proposito di qualcosa che non monta in cattedra) è che il pericolo, il dolore, l’ombra della morte possono impartire dignità, a volte addirittura saggezza, a giovani inesperti, infingardi ed egoisti.

    La rinnovata dignità letteraria della fiaba
    La verità, dicevamo, domina le fiabe assieme alla credibilità e alla fantasia. Ma quello di verità è un concetto complesso, stratificato, manipolabile e tutto umano che, dunque, presuppone la presenza dell’uomo. Così, secondo Tolkien, se leggiamo un racconto che abbia come protagonisti animali parlanti in cui l’uomo è solo una presenza occasionale e secondaria, ciò che leggiamo non è una favola, ma la versione edulcorata di essa presentata a un pubblico nei secoli sempre più svalutato, quello dei bambini.

    Attenzione però: se il legame con la verità, con la Storia dell’uomo nel Mondo Primario si stringe troppo, si rischia di infrangere una delle leggi che vigono nel mondo creato dall’autore; e allora può capitare di rompere l’incanto e di far chiudere le porte di Feeria. Se, quindi, Tolkien avesse narrato la storia di alcuni ragazzi particolarmente bassi che, con un anello fra le dita e contando l’uno sull’amicizia dell’altro, avevano intenzione di sconfiggere il nemico durante la Seconda Guerra Mondiale, chi gli avrebbe creduto? La verità avrebbe distrutto l’inganno senza lasciare nessun insegnamento.

    L’equilibrio tra credibilità e verità è complessissimo, ancora più difficile se si pensa al grado di creatività necessario per creare un cosmo intero come quello creato da Tolkien, ma che si ritrova in molti altri racconti di fantasia simili. Tutto si regge sulla maestria narrativa dell’autore. E allora come si può pensare di escludere la favola dal rango di letteratura, chiudendola a marcire in una stanza?

    Conclusioni sulle fiabe per bambini e “meno bambini”
    In conclusione, la favola fa parte di quei grandi argomenti letterari su cui è necessario operare un’epurazione di stereotipi e riflettere a lungo. Per farlo, concludiamo con le parole dello studioso che prima di tutti, prima ancora che vi arrivassero i tempi, lo ha intuito e che ci racconta proprio il suo punto di vista di bambino sulle fiabe:

    Io non avevo alcun particolare «desiderio di credere». Volevo sapere. Credere dipendeva dalla maniera in cui le storie mi venivano ammannite dagli adulti o dagli autori, ovvero dal tono e dalla qualità intrinseci al racconto.

    E allora come è possibile ignorare il fatto che il desiderio di conoscere sia proprio all’uomo a prescindere dalla sua età e come possiamo trascurare l’assunto che Il Signore degli Anelli possa essere letto a dieci, quindici, venti o sessant’anni traendone il medesimo piacere di un romanzo?

    Bibliografia
    Sulle Fiabe, tratto da Albero e foglia, J. R. R. Tolkien, Bompiani, 1964
    Su Tolkien e le Fiabe, T. Windling, traduzione di Nicola Iarocci del saggio apparso nel libro collettivo Meditations on Middle-Earth, St. Martin’s Press, 2001


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